Per mostre e per incisioni

di Marco Elio Tabacchi e Settimo Termini

In queste pagine parleremo di interdisciplinarità e, approfittando della singolarità e unicità di questo numero, ne parleremo in una maniera che in un fascicolo ordinario della Lettera, così come di qualsiasi altra rivista, non avremmo fatto. Il lettore ci perdoni questa forma insolita. Insolita nel senso che è molto poco, anzi per nulla, accademica, portando esempi ed esperienze che non sono quelle che sono normalmente discusse in qualsiasi articolo “serio”. Per qualche riflessione sul tema più “seria” – o che indica, quantomeno, il livello di serietà a cui noi riusciamo a giungere – rinviamo a [1].

Qui ci limitiamo a riportare alcune reazioni personali immediate su temi che hanno a che fare con “esperienze” interdisciplinari, esperienze dirette e concrete di attività svolte di recente da ciascuno dei due autori in modo indipendente ma con costanti scambi di sensazioni e informazioni. Un “rapporto informale”, dunque, questo che state per leggere1 che trae origine da attività non usuali dei suoi due redattori che nulla avevano a che fare, direttamente, con la loro formazione scientifica ma che ha continuato a persistere sullo sfondo, anche in modo involontario, soprattutto in connessione a un Workshop fortemente interdisciplinare al quale entrambi sono stati presenti, quest’ultimo vicino alle attività degli autori.

Il titolo di queste pagine recita “Per mostre e incisioni”, ma in realtà ad esse accenneremo soltanto; non ne parleremo come, in un primo momento, avevamo pensato di fare: Ci abbiamo rinunciato perché non abbiamo trovato un livello di comunicazione adeguato a trasformare l’accadimento biografico, evenemenziale, in qualcosa che permettesse al lettore di cogliere meglio il nucleo di ciò che volevamo trasmettere. E allora abbiamo cambiato modalità.

Ci limitiamo a dire che le “incisioni”, in senso letterale e concreto sono state al centro – assieme ad altre cose – degli impegni del primo autore nel corso degli ultimi due anni (i cui commenti sono presenti nei paragrafi 2 e 3) mentre le mostre – numerose e, in alcuni casi, ripetute – lo sono state del secondo (i cui commenti sono presenti nei paragrafi 4 e 5). Impegni iniziati per approfondire interessi e curiosità intellettuali sono diventati inevitabilmente un’estensione ragionata sia delle attività scientifiche (moderatamente) disciplinari usualmente svolte sia delle riflessioni su come le diverse discipline possano o debbano interagire.

Non possiamo, infine, non fare riferimento a un tema cruciale e strettamente connesso, anche se non lo tratteremo affatto, quello degli studi sulle relazioni tra funzionamento del cervello ed esperienze estetiche – come descritte, ad esempio, da Adriana Fiorentini e Lamberto Maffei e da Eric R. Kandel.

Il testo completo può essere scaricato da qui

Sul nostro declino (e come contrastarlo)

di Settimo Termini – 16 Dicembre 2019

Da un po’ di tempo parliamo spesso del nostro declino. Ma non ci chiediamo quando e perché sia iniziato. Alcune decine di anni fa c’è stato un momento nel quale il dibattito riguardava, invece, se fossimo la quarta o la quinta potenza industriale del mondo. Dovevamo capire cioè se, partendo dal quinto posto che occupavamo  stabilmente ormai da un po’ di anni, saremmo riusciti a superare chi ci precedeva immediatamente.

Cosa è successo da allora? Nel frattempo è cambiato il mondo con l’ingresso in forze della Cina e la solita “globalizzazione”. Ma se si fosse trattato solo di questo, saremmo semplicemente andati indietro di qualche posto nella classifica. E non avremmo dovuto porci il problema.

Se declino c’è, dobbiamo cercare di capirlo studiando in dettaglio come stanno le cose. Scopriremmo, magari, che qualcuno qualche studio lo aveva già fatto (all’insaputa di tutti). E che l’Osservatorio Enea per la competizione tecnologica aveva periodicamente esaminato l’arretramento dell’Italia già da molti decenni. Peccato che l’ultimo rapporto risalga al 2007 perché da allora non ha più avuto i fondi per continuare a lavorare (Sergio Ferrari, Paolo Guerrieri, Franco Malerba, Sergio Mariotti, Daniela Palma, L’Italia nella competizione tecnologica internazionale. Quinto Rapporto ENEA, Franco Angeli, 2007). 

Una sintesi del problema è rintracciabile in un prezioso libriccino (Società ed economia della conoscenza, Mnamon 2014) di Sergio Ferrari, che di quest’osservatorio è stato l’ideatore. I dati, quindi, li abbiamo tutti. Una componente (molto significativa) del nostro declino riguarda il fatto che non siamo da molti decenni competitivi nell’alta tecnologia.

Per il testo completo   https://www.lidentitadiclio.com/sul-nostro-declino-e-come-contrastarlo/

I like Ike

di Settimo Termini

Il titolo può sembrare incomprensibile a molti. Spero che le considerazioni finali lo rendano chiaro

Ascoltando e seguendo la cronaca di questa guerra in Europa – la prima trent’anni dopo i disastri e le atrocità nei Balcani (che, purtroppo, non abbiamo vissuto allora come qualcosa che ci riguardasse da vicino, come invece avremmo dovuto fare) – mi sono ritrovato a osservare la mia mente dall’esterno che come sempre fa – salta da una visione a all’altra, da un’immagine interna a noi che improvvisamente affiora a un’immagine che forse induciamo noi stessi ad emergere. come fa sempre la nostra mente e tanto più se non cerchiamo di forzarla, se non indugiamo troppo su di essa.

Tra le cose viste, come tanti altri italiani, mi ha molto colpito un servizio di quella bravissima giornalista (me questa definizione è limitativa) che è Francesca Mannocchi. Già in passato ero stato molto colpito dal suo modo estremamente efficace di presentare ciò di cui parlava, così come ero stato molto toccato nel profondo dalle lettura di due suoi libri e, anche in questo caso, sia per il contenuto sia per il modo in cui questo era narrato. Una perfetta coincidenza tra forma e contenuto. Ma questo servizio, vedendolo, ha causato qualcosa in più. Come al solito, l’efficacia della comunicazione in questo suo servizio era affidata alla capacità narrativa che associava e alternava, attraverso un montaggio particolarmente efficace, primi piani, sobri commenti, risposte degli intervistati.

A domande pregnanti si alternavano a lenti passaggi silenziosi sugli effetti della guerra. Le potremmo definire “pure immagini”. Secondo la scuola Kagyupa del buddismo tibetano (quella di Milarepa), queste, le immagini allo stato puro, dovrebbero accelerare la presa di coscienza di cosa sia e come funzioni la realtà in modo più rapido e immediato di quanto riusciremmo a fare mediante più elaborati procedimenti di tipo logico concettuale. (non solo uso una terminologia occidentale ma, per limiti personali, la banalizzo tanto da sfiorare la sciatteria).

Ma questo lo sappiamo senza troppi giri e giochi di parole. Quando abbiamo visto l’immagine di un bambino su una spiaggia in Turchia, tutti (tutto il mondo potremmo dire) ha avuto una reazione sincera e immediata, vera e profonda.

Queste , proprio queste hanno fatto scattare un’associazione immediata, anzi direi, una sorta di cortocircuito fulmineo con immagini remore sedimentate, da qualche decennio nella memoria. Quelle di Koyaanisqatsi, lo strano e affascinante film di Godfrey Reggio. Ciò che vedevo – accaduto oggi – era una conferma della “vita squilibrata” (questa è una della possibili traduzioni del termine hopi del nome del film) documentata a suo tempo da Reggio.

Sono immagini di guerra, si potrebbe dire, squilibrate come tutte le immagini di guerra che raccontano e testimoniano la vita profondamente sconvolta e ferita dalla guerra ma non è proprio coì se ricordiamo che Koyaanisqatsi ,tra l’altro, documenta gli effetti del nostro uso sconsiderato della tecnologia in tempo di pace. Non ricordo (non lo rivedo da molti anni) se vi sono anche immagini di guerra ma, siano presenti o meno queste ultime, il suo scopo non era rivolto principalmente alla guerra.

Koyaanisqatsi documenta un eccesso, un eccesso che non è dovuto al desiderio di colmare le mancanze – anch’esse in eccesso –  di oggetti, cose e bisogni di tanta parte dell’umanità. Sono eccessi inutili che procurano solo danni. Danni ambientali, come minimo ma che, a catena, possono condurre ad altre conseguenze, procurando altri danni. Che c’entra questo con immagini di guerra, con la distruzione da essa generata? Obiezione giusta. Mi fermo a riflettere: La mia mente, nel suo girovagare, ha fatto un’associazione indebita questa volta? O no? Le associazione mentali non sono mai sbagliate. Siamo noi che possiamo interpretarle in modo non corretto, spiegare il legame evidenziato informalmente forzandolo in modo indebito a livelli più generali e non dove si trova realmente (l’astrazione sbagliata di cui parlava Simone Weil).

Il legame è dato dalla necessità di esaminare e prendere molto sul serio le cause strutturali profonde, diverse e nella loro connessione. Quelle che stanno alla base di tutti gli squilibri. Fenomeni così complessi e devastanti non sono attribuibili ad un’unica causa.

“I like Ike” era lo slogan elettorale di Eisenhover che dopo aver vinto la Seconda guerra mondiale divenne Presidente degli Stati Uniti. E nel suo ultimo discorso alla Nazione, prima di lasciare la carica, ammonì tutti, lui ex militare, del pericolo del “Complesso militare industriale”. Con lungimiranza aveva visto un possibile pericolo.

In questa situazione così complessa, il titolo vuole da un lato rendergli omaggio e dall’altro invitare tutti a riflettere su quello che i suoi ammonimenti significano anche oggi.

P. S. Avevo scritto queste poche righe solo per me, in una sorta di diario privato, all’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Le considerazioni, purtroppo, continuano ad essere attuali. Di nuovo c’è che, nel frattempo, si è aggiunta un’altra guerra. Avremmo veramente bisogno della saggezza di Eisenhower.

Il glicine e la jacaranda.

Il glicine e la jacaranda.

di Settimo Termini

Il glicine è una pianta che mi ha sempre affascinato. Per la spettacolarità della sua fioritura intensa, per il suo colore e, anche, per la sua breve durata. Come se, dopo aver mostrato ciò di cui era capace, preferisse “vivere nascostamente”, seguendo il consiglio di alcuni nostri antenati. Ed è una pianta con cui sono da sempre stato familiare. Fin da quando, da ragazzo, la vedevo esplodere nel microgiardinetto su cui si affacciava il balcone della cucina della casa dei miei. O nel prato della campagna di Margi con la pianta che mia sorella Paola ha voluto si avviluppasse sull’arco di ferro che protegge l’altalena, intrecciandosi con esso. Una pianta che piaceva tantissimo anche a mia moglie Marina, per la sua levità e armonia e, poi, per il colore, prediligendo lei ogni sfumatura violacea.

La jacaranda, invece l’ho scoperta di recente – da pochi anni. Pur avendola avuta sotto gli occhi da sempre perché è presente in molti luoghi a Palermo e anche a Napoli. L’ho scoperta quando ho conosciuto il suo nome. Quando, dopo aver letto il nome, mi sono chiesto cosa ci fosse dietro di esso e ho identificato questo qualcosa ‘separandolo’ dallo sfondo indistinto che contiene tutte le cose e da cui emerge solo ciò che sappiamo nominare o decidiamo di farlo. Mi è sembrato che, senza volerlo, stessi seguendo le indicazioni di George Spencer-Brown nel suo Laws of Form.

Le lunghe passeggiate, effettuate con passo lento, che iniziavo in via Isonzo, un viale ricco di folte jacarande, proprio per godere appieno del breve periodo in cui questi straordinari fiori tra il blu e il violaceo mostrano la loro ricchezza, risalgono a molti mesi fa ma sono proprio quelli in cui questa inopinata guerra è scoppiata. Quelli in cui allo stupore, o, meglio, all’incredulità, per quello che era accaduto si associava qualcosa di più di una speranza, la convinzione che qualcosa in quei mesi avrebbe dovuto accadere che ponesse, rapidamente, termine a ciò che non avrebbe proprio dovuto iniziare.

Passeggiate nel corso delle quali le riflessioni su ciò che avevo letto si alternavano – nelle soste su un muretto lungo il viale della Libertà o nelle panchine del Giardino inglese e di Piazza Politeama, piena anch’essa di jacarande – alla lettura d’altro e, ancora più spesso, alla ricerca di nuovi e diversi stimoli alla riflessione. Di tutto questo non parlerò. Citerò solo i ricchissimi fascicoli di Limes con tutta la ricca e saggia informazione che Lucio Caracciolo è riuscito a convogliare per una lettura informata dei fatti. Desidero riferirmi, qui, solo alle informazioni contenute in questi fascicoli non a suoi libri che, esponendo un particolare punto di vista, possono essere meno dialoganti.

Altri libri sono stati per me molto informativi, presentando aspetti differenti, cosa tanto più utile quanto più le cose venivano guardate da prospettive diverse, perché è proprio (e solo) dal confronto di diversi modi di vedere che possiamo criticamente affrontare i problemi, quelli importanti, e poi risolverli.

Alcuni di questi libri hanno dialogato, tra loro e con quello che stava (e sta) accadendo, ma se li citassi mi perderei nella trama complessa delle motivazioni che dovrei dare per raccontare come mi sono imbattuto in essi e perché li ho presi sul serio quando tutto uno stucchevole, uniforme coro spingeva in una direzione diversa. Ma un nome è doveroso che lo faccia. Quello dell’ambasciatore Sergio Romano, lucidissimo novantatreenne. I nomi dei suoi libri (tutti dialoganti con altri libri e con la realtà) e dei suoi interventi, se vuole, li cerchi il lettore. In fondo il dialogo più profondo (che in un certo senso li racchiude tutti) è proprio quello tra le analisi corrette, basate su una conoscenza dello stato delle cose, e su una informazione il più possibile completa, con riflessioni analoghe riguardanti altri periodi storici.

Ormai dovrebbe essere chiaro che in questa rubrica mi riferisco proprio a un dialogo che intercorrere tra i libri. In certi casi, quelli per me stimolanti, sembra veramente che a una domanda che nasce leggendo un libro, la risposta la dia proprio un altro libro magari molto remoto nel tempo. Proprio come nel nostro caso. Perché il dialogo più fruttuoso tra tutte le cose serie (e non sono moltissime) che ho letto in questo periodo è quello che si è stabilito, in modo assolutamente naturale, con Simone Weil. É proprio lei che fornisce le risposte a molte domande difficili che sorgono volendo esaminare in modo spassionato ciò che sta succedendo oggi. Per semplicità mi limiterò a un suo saggio del 1937, tradotto in italiano per la prima volta nel 1991 e, adesso, contenuto in un volume antologico intitolato “Sulla guerra” (Il Saggiatore) apparso nel 2017; prima quindi di questo fatale 24 febbraio e anche degli sconvolgimenti prodotti dal Covid che l’uso di un linguaggio guerresco – sia pur in senso metaforico – hanno stimolato. Segno quindi che nell’atmosfera culturale generale, riflessioni sulla guerra avrebbero potuto contare su un certo numero di lettori (nessun editore pubblica qualcosa se non presume che ci sia un piccolo ma non troppo esiguo numero di acquirenti) e non solo per il traino che poteva dare il nome di Simone. Per quanto, fortunatamente, il suo nome (assieme alla profondità delle sue riflessioni) comincia ad essere relativamente noto non credo che da solo avrebbe convogliato un numero grande di acquirenti del libro. Ma che dice la nostra acuta osservatrice che può essere utile anche oggi? Quali sono le risposte che ci aiuta a dare ai quesiti che la situazione (e pochi commentatori) ci costringe a porre a noi stessi? Accenno a qualcosa:

I conflitti più minacciosi hanno un carattere comune che potrebbe rassicurare gli animi superficiali, ma che, malgrado l’apparenza, ne costituisce il vero pericolo: non hanno un obiettivo definibile. Nel corso di tutta la storia umana è possibile verificare che i conflitti in assoluto più accaniti sono quelli che non hanno un obiettivo. Questo paradosso, una volta colto con chiarezza, è forse una delle chiavi della storia; è certo la chiave della nostra epoca.

Una sorta di paradosso, forse, è anche il seguente. Fino al 24 febbraio nessuno credeva fosse possibile una guerra in Europa (non si sa perché, visto che negli anni ’90 c’era stato qualcosa di molto sanguinoso in Jugoslavia) ma nello stesso tempo si riteneva – anche prima di quella data – che la guerra era sempre qualcosa di cui tener conto tant’è che ci si continuava ad armare, invertendo la tendenza degli ultimi anni della guerra fredda. Simone Weil continua:

Quando c’è una lotta riguardo a un obiettivo ben definito, ognuno può valutare questo obiettivo e insieme i costi probabili della lotta, decidere fino a che punto varrà la pena di sforzarsi; in generale, non è nemmeno difficile trovare un compromesso preferibile, per ognuna delle due parti in causa, a una battaglia anche vittoriosa. Ma quando una lotta non ha obiettivo, non c’è più misura comune, non c’è più equilibrio, proporzione, confronto possibile. Un compromesso non è nemmeno concepibile.

E, ancora:

Per chi sa vedere, non c’è oggi sintomo più angosciante del carattere irreale della maggior parte dei conflitti che sorgono: hanno ancora meno realtà del conflitto tra greci e troiani. Al centro della guerra di Troia, almeno c’era una donna … Per i nostri contemporanei, il ruolo di Elena è svolto da parole adorne di maiuscole. Se potessimo afferrare, nel tentativo di comprenderla, una di queste parole gonfie di sangue e di lacrime, vedremmo che è priva di contenuto. Le parole che hanno un contenuto e un senso non sono omicide. … Ma si mettano le maiuscole a parole vuote di significato, e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione, gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole, senza poter mai ottenere effettivamente qualche cosa che a queste parole corrisponda; niente di reale potrà mai corrispondere, perché non vogliono dire niente. … Beninteso, non sempre queste parole sono in sé prive di senso; alcune ne avrebbero uno, se ci si desse la pena di definirle in modo conveniente. Ma una parola così definita perde la sua maiuscola, non può più servire da bandiera, né tenere le sue posizioni di fronte alle vuote parole d’ordine nemiche; è solo un riferimento per aiutare a cogliere una realtà concreta, o un obiettivo concreto, o un metodo d’azione: chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane.

Tutto il volumetto di Simone, e, in particolare, il saggio a cui abbiamo fatto cenno, ci permettono di vedere le cose da un punto di vista diverso. Il 24 febbraio è una data cruciale perché certifica in via definitiva che i profondi squilibri e problemi che hanno fatto scoppiare la Grande guerra (quella del 1914/18) sono ancora tutti lì. E il motivo è che non è stata data attuazione (e ulteriore sviluppo) alle innovazioni proposte negli anni intorno al 1945. E, a partire dagli anni ’80, si è addirittura interrotto questo processo innovativo, tornando indietro.

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Ars loquendi. La comunicazione pubblica della scienza.

di Settimo Termini

L’arte di parlare, l’arte di comunicare. Anche con un titolo. “La matematica è politica” leggo sull’elegante copertina (sempre un poco intimidente) di un recente volumetto delle “Vele”.

Chi lo ha scritto è una nota scrittrice ma – mentre accarezzo con gli occhi la composizione che mi ha sempre colpito per la sua essenzialità, per il suo unire eleganza grafica a sobrio contenuto informativo con la sua frase simbolo in evidenza e cerco gli occhiali per mettere a fuoco il testo – improvvisamente un’altra immagine mi balza agli occhi, nitida questa volta senza bisogno degli occhiali. L’immagine di una studentessa di dottorato, timida, composta e un po’ ritrosa, che non cerca di mettersi in mostra ma, quando è interpellata, serissima, puntuale, precisa (forse, anche, un po’ “precisina”) nel rispondere. Il dottorato non era di “creative writing” o di temi collegati a questo che non so come si chiamino esattamente. No, si trattava di un dottorato in scienze computazionali e informatiche.

Coordinato da Luigi Maria Ricciardi che di Chiara Valerio era il referente scientifico e che nei consigli di dottorato ne parlava come di persona su cui potere fare affidamento. E al di là dei commenti verbali una testimonianza scritta dello stesso Ricciardi è fornita dal fatto che in un volume commemorativo di Eduardo Caianiello (Imagination and Rigor, Springer, 2006) il suo contributo incentrato su un problema cruciale passato criticamente in rassegna su ventuno articoli delle referenze, di quattro Chiara è una delle coautrici. Il rammentare ciò non vuole essere una testimonianza a favore dei meriti dell’autrice di questo smilzo libretto nella sua vita precedente. Oltretutto, dato il suo successo nella sua vita “presente”, quella letteraria, non ce ne sarebbe bisogno e – sicuramente – ai suoi lettori in sé non importa nulla. Questo richiamo è significativo per un’altra ragione. Il suo passaggio nel mondo della matematica, il modo con cui lei ha “attraversato” il mondo della ricerca, non è stato superficiale, per quanto possa essere stato di breve durata. Lei lo minimizza con elegante understatement. Ma, se ho capito il messaggio che lei vuole inviare, questa sua competenza passata deve essere sottolineata.

Sono partito da un libro ma lo scopo non è quello di farne una recensione (qualcosa che non so fare) ma di vedere che lezioni ne possiamo trarre in rapporto a quello che altri libri ci dicono su un tema che voglio capire. Possibilmente guardandolo da punti di vista insoliti. Vediamo se riesco a farlo riguardo alla divulgazione e comunicazione della scienza. Ma torniamo al libro.

Uno dei messaggi che Chiara vuole trasmettere, mi pare, è che la matematica si intreccia profondamente con noi, col nostro modo di essere, di fare e di vivere. Ci cambia. Definitivamente.

Ma perché questo avvenga non basta, anzi non serve, avere preso 30 in un esame o saper fare conti a velocità strabiliante.

La condizione è di essere entrati in sintonia con essa, anche soltanto una volta. Se risuoniamo scoprendo un nuovo concetto, capendo la forza e la bellezza della dimostrazione di un teorema nel seguire i passaggi che disvelano il profondo legame unisce premesse e conclusione. E questo lei, in una fase della sua vita, si vede che lo ha realizzato.

Questo non vale solo per la mate matica, vale per la fisica e per ogni altra disciplina scientifica. Antonella Viola, nel suo “Danzare nella tempesta” (Feltrinelli), recentemente uscito, parla così della sua giovanile lettura di un libro. “La mia passione per la scienza si è concretizzata quando ho deciso di studiare la biologia evoluzionistica. … Oggi parlare di evoluzione è normale ma bisogna davvero fare un enorme sforzo di immaginazione per capire cosa deve essere stato leggere “L’origine delle specie” nel 1859 … Darwin aveva una capacità di visione davvero sbalorditiva … I giovani sono attratti dalle rivoluzioni e io penso che Darwin sia stato il più grande rivoluzionario della storia”. Non mi interessa qui il suo giudizio su Darwin, ma il modo con cui ne parla. Trasmettendoci come quella lettura si sia intrecciata con la sua vita e che i suoi studi giovanili l’abbiano portata “all’immunologia per una strada un po’ eccentrica”

(corsivo mio). Un dettaglio, quest’aggettivo, importante.

Per fare cose innovative e profonde dobbiamo essere sempre un po’ eccentrici. E poi essere rigorosissimi anche più di coloro che seguono beatamente il cosi detto mainstream. Forse il distacco e l’equilibrio comunicativo di questa immunologa, che abbiamo verificato tante volte in quest’anno e mezzo di pandemia, sono stati così efficaci perché il risultato di una profonda partecipazione interiore (e che, ogni tanto, rompeva gli argini della compostezza).

Ma perché stiamo parlando solo di matematica e materie scientifiche che si intrecciano con la nostra vita, col nostro modo di essere? Forse che lo stesso non avviene anche con le materie umanistiche? Certo che sì, ma questo si ritiene naturale, ovvio. Il punto da trasmettere è che lo stesso può avvenire con la scienza e la matematica.

Ma per lei personalmente, per questa nostra, ormai “ex”, matematica, perché questa disciplina è stata importante? Ecco cosa dichiara: “Studiare matematica è stata a oggi la più grande avventura culturale della mia vita. Per due motivi, il primo è che ero molto giovane, il secondo è che ero molto insicura. La giovinezza di solito, se uno è fortunato, passa da sé, ma l’insicurezza è più subdola. La matematica mi ha rafforzato chiarendomi i concetti di verità, contesto e approssimazione”. Noi possiamo avere molte vite, quello che passa da una di queste alle successive rendendo quest’ultima più ricca è ciò che abbiamo fatto seriamente, quello per cui ci siamo impegnati con noi stessi, che ci ha coinvolto in ogni nostra fibra. Questo, non i contenuti specifici che possiamo anche dimenticare e che spesso, a volte, di fatto, dimentichiamo totalmente. Bertrand Russell diceva (più o meno, sto citando a memoria) che la cultura è ciò che rimane quando si è dimenticato tutto. Proprio tutto.

In questo libriccino, com’è chiaro dopo averne sfogliato anche poche pagine, non si sta facendo alcuna comunicazione di contenuti (né matematici né di altro genere). Si tenta di suscitare curiosità e interesse solo con richiami alla matematica.

Di comunicare a chi legge quelle che sono state curiosità e interesse dell’autrice. Stimoli, connessioni, stati d’animo personali, trasmessi in modo efficace, come quando parla di alsituazione alla Russell: raccontare cosa le è rimasto dopo che ha dimenticato tutto.

Una formazione scientifica (come qualsiasi formazione profonda e seria in qualsiasi campo) impronta, infatti, di una particolare forma di rigore tutto quello che viene detto. Ai tempi del lockdown dello scorso anno, mi avevano molto colpito le immagini parallele di come veniva spiegato il contagio da un assessore della Regione Lombardia di cui è bene dimenticare il nome ma non la sua performance cabarettistica e da Angela Merkel. Può darsi che la chiarezza cristallina di quest’ultima fosse un po’ debitrice anche del suo dottorato in fisica?

Citiamo di nuovo Chiara: “La matematica va a fondo nella definizione della verità. La verità non si possiede mai da soli. O tutti siamo in grado, date le condizioni al contorno e l’insieme di definizione, di giungere al medesimo risultato, o posso gridare forte quanto voglio di possedere la verità, ma griderò invano. La matematica insegna che le verità sono partecipate”

E poco dopo scrive: “Mi pare un esempio convincente sul perché la verità (la soluzione di una equazione) dipenda dal contesto. E aggiungo che le verità umane somigliano alle verità matematiche. Sono tutte assolute, e tutte transeunti, dipendono dall’insieme in cui vengono enunciate, dal contesto.”

Immagini fortemente allusive più che direttamente informative e un po’ apodittiche. Cosa c’entrano con la “comunicazione” della scienza? E perché poi non basta avere testi chiari che raccontino pezzi di scienza in modo semplice e comprensibile da (quasi) tutti? Certo che qualcosa si perde, forse molto.

Ma se vogliamo divulgare un argomento difficile è ovvio che non dovremmo creare problemi al lettore. Fornirgli libri senza problemi? Quelli non mi sono mai piaciuti.

I libri hanno una loro vita propria, una loro complessa autonomia. Ma non quelli senza problemi. Quelli forgiati nel calore di un nostro profondo coinvolgimento. Quando vi si intersecano argomenti cruciali, appare lo sforzo di individuare collegamenti non intravisti prima, la speranza che le nostre argomentazioni possano contribuire a impostare bene i problemi, a vederli nella giusta prospettiva. E i libri scritti così il coinvolgimento lo trasmettono al lettore con un effetto dirompente che essi possono avere nella società e anche nella nostra stessa vita. Non a caso il Tractatus di Spinoza è stato definito un libro forgiato all’inferno. Cerco di andare avanti con le mie argomentazioni ma non ci riesco più. Capisco che ciò che mi blocca è proprio il fatto che non mi viene in mente l’autore di questa definizione. E allora mi fermo. Voglio, devo trovarlo. Mentre sfoglio volumi presi a caso dal disordine dei miei libri alla ricerca di chi aveva usato quella frase e compulso le lunghe e dotte bibliografie stampate alla fine di vari volumi mi lamento per questo eccesso di erudizione. E adesso a bloccarmi è un’immagine. I titoli dotti che sto scorrendo si materializzano e mi rimproverano. Ecco, mi dicono, e noi saremmo inutili? Che ci stiamo a fare allora? E’ proprio questo che tu sopra intendevi a proposito della comunicazione efficace? E tu la stai facendo? Te la prendi con noi perché siamo troppo eruditi?

Touché! Ecco, no. Non intendevo questo. E credo che non serva cercare di spiegare cosa intendevo. Mi chiedo, invece, come possa essere venuta fuori questa immagine. D’accordo che la mente è in grado di produrre cose, letteralmente, inimmaginabili, come raccontava Alexandra David-Néel. Nel corso di un viaggio in Tibet, in altra epoca, quando questo Paese era ancora – sia socialmente sia geograficamente – come ai tempi di Marpa e Milarepa, la sua mente aveva creato una specie di lama (non ricordo il nome esatto di questa materializzazione) che l’accompagnò per un bel tratto e di cui non riuscì a liberarsi facilmente come avrebbe voluto e come ci saremmo aspettati, visto che era un prodotto della sua mente. Ma non solo io non sono Alessandra David-Neel e non mi trovo nel Tibet di quel tempo, a quelle altitudini e connesse mancanze di ossigeno.

Sospetto ci sia dell’altro. Ho l’impressione che stia, inconsciamente, facendomi un gioco trasformando in immagini qualcosa che ho letto. La potenza dei libri! Sulle interpretazioni buddiste tibetane non sono in grado di dire nulla – posso solo essere sospettoso – ma c’è un’interpretazione, per analogia (con tutti problemi che le analogie comportano), che possiamo dare a questo episodio e che a me almeno interessa molto. Quando noi pensiamo e creiamo qualcosa (anche se non è un lama, anzi un “tulpa”, ho ricordato adesso il nome esatto) questo ha una sua complessità e una dinamica interna che non sempre si accorda con le nostre assunzioni concettuali implicite e con alcune delle cose che esplicitamente credevamo fino a un momento prima. Questa ricchezza e complessità è fondamentale.

Se non avviene questo, allora stiamo parlando di banalità. E se emergono contraddizioni, che siano benvenute. Dovremo fare i conti con esse.

Ma come mi era venuta in mente l’immagine dei testi eruditi che, col sopracciglio alzato, mi rimproveravano? Adesso ci sono. E’ l’elaborazione mentale di un passo di Croce. Ci riferisce che una volta le Muse si arrabbiarono tanto e apparirono “in sogno in un postribolo accusandolo di avervele lui collocate quando si era proposto di divulgarle”. Per evitare che venga a me in sogno Croce a rimproverarmi, devo chiarire che le Muse non apparvero in sogno a lui. Riferisce che, secondo un antico aneddoto greco, questo accadde a un “filosofo che voleva <<divulgarle>>”. (Discorsi di varia filosofia II, pagg. 129-30).. In ogni caso, comunque, le Muse sono contro la divulgazione. Ma non sono solo loro a ritenerla disdicevole.

In quel guazzabuglio di scritti vari pubblicato sotto il nome di “Diario in pubblico” (Bompiani, 2016), Elio Vittorini ci dice che “La maniera in cui Steinbeck può filar via centinaia e centinaia di pagine non appena si applichi a descrivere, tralasciato ogni sforzo fantastico, le vicende più ovvie della lotta sociale in America, ha sempre indicato (…) che le sue vere capacità sono di natura secondaria: letteraria anziché poetica, dimostrativa anziché esplorativa, divulgativa anziché creativa”. Per essere veramente efficaci non dobbiamo essere “divulgativi” ma creativi.

Non sto dicendo che Vittorini abbia ragione nel suo giudizio critico su Steinbeck ma che abbia ragione nel sostenere che con le cose ovvie non si va da nessuna parte. E ‘divulgare’ non è una cosa troppo profonda.

Dietro “divulgare” c’è l’idea di dover in qualche modo “ridimensionare” per rendere fruibile dal ‘volgo’ o da un bambino.

Dovremmo, invece, imparare a comunicare, dando notizia anche di quello che – a un certo livello di semplificazione – non si può trasmettere. Trattare l’interlocutore da adulto e da cittadino.

E, adesso, senza alcun bisogno di scavare oltre nella mia biblioteca, appare in mente l’autore della frase che cercavo.

Esperienza che tutti abbiamo avuto quando cerchiamo di ricordare qualcosa che si rifiuta di emergere. E’ il titolo di un libro di Steven Nadler (Einaudi). Il ricordo mi balza in mente associato all’immagine della copertina con il volto del nostro Baruch parzialmente coperto da una pagina strappata con macchie giallastre (umidità o tracce di bruciature?). E il titolo non se l’è inventato Nadler ma lo ha copiato da un giudizio sulfureo, è il caso dire, di un contemporaneo di Spinoza. Un libro importante, il suo, per come sottolinea il ruolo cruciale di un altro libro. Ma, per il modo in cui lui è apparso qui, ci fornisce anche un’altra lezione, utile per la comunicazione. Mai forzare. Si generano blocchi mentali, si consolida un rifiuto solo potenziale, si cristallizza. Suggerire, invece, indurre a considerare le esperienze altrui. Proprio la differenza che potremmo stabilire tra divulgare e comunicare.

E torniamo a Chiara Valerio che, in fondo, proprio questo sta facendo (a modo suo, naturalmente). Avevo dimenticato quest’altra sua affermazione: “La matematica non è la scienza degli oggetti ma della relazione tra gli oggetti così come la grammatica è la scienza delle relazioni tra le parole”. Una chiave per introdurre in maniera gentile la matematica a chi se ne sente distante?

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Klara e silicio. L’IA e la le=eratura cercando la pace in un periodo di guerra

di Settimo Termini

Ho comprato l’ultimo libro di Katsuo Ishiguro una domenica mattina di circa un anno fa. Dopo essere tornato a casa ho continuato a sfogliarlo ancora un po’, seduto sul divano.

Poi l’ho poggiato in alto sopra una delle due colonne di libri che torreggiano sul mio comodino contando di continuare a leggerlo la sera. Per evitare che la colonna crollasse, ho tolto alcuni dei libri in alto, che già da tempo avrei dovuto riporre in uno scaffale. Ho sempre in mente di mettere un po’ d’ordine ma lo faccio solo se costretto. “Klara e il sole” (Einaudi 2021), cosi, è andato a finire su “Silicio”, un’autobiografi a molto originale di Federico Faggin (Mondadori, 2019). Non so se i due hanno scambiato fra loro qualche parola. Credo di sì, perché quando li ho ripresi in mano avevo l’impressione che si fossero messi d’accordo per rinviarmi l’uno all’altro. D’altronde se il rosicchiare e mangiare libri può stimolare la passione per il loro contenuto, come è accaduto a “Firmino” (Einaudi, 2019), non mi sembra impossibile che riescano anche a parlare tra loro.

Silicio, invece, lo avevo già letto e non so perché era rimasto in una delle due pile sul comodino. Letto a modo mio, naturalmente, cioè saltando da un capitolo all’altro. Il capitolo preferito da cui cominciare, di solito, è l’ultimo. Anche per i gialli. Vi risparmio gli sguardi di commiserazione, o peggio, che mi vengono indirizzati quando mi capita di comunicarlo.

Questo è il mio modo personale (e discutibile) per capire meglio i libri. Smontandoli. Chissà perché pochi ammettono che i libri sono (anche) degli artefatti, delle costruzioni e, come tutti i marchingegni, per essere capiti bene devono essere smontati e poi rimontati. Poi, quelli importanti, una volta messo a nudo il meccanismo, fanno pensare. Rendersi conto di come sono costruiti facilita la trasmissione completa del loro contenuto profondo. Solo se li smontiamo diventiamo parte di loro.

Devo confessare, però, che non sono molto bravo a smontare e rimontare gli artefatti. Avevo provato a farlo con un orologio quando avevo dodici o tredici anni e non è andata molto bene. Spiego meglio. Dopo averlo smontato sono riuscito a rimontarlo correttamente. Non ho fatto errori o pasticci.

Tutti i pezzi sono tornati correttamente al loro posto, ma non sono riuscito a riparare ciò che non andava. L’orologio non funzionava prima e ha continuato a non funzionare dopo. Smontare e rimontare è stato molto utile per me perché ho capito molto di più del meccanismo ma non tanto da riuscire a riparare il guasto. Per fare ciò avrei dovuto conoscere altre cose riguardo al suo funzionamento. Potrei dire, con un po’ di enfasi, la “teoria” che sta dietro a quella tecnologia. Con i libri, invece, mi è sempre riuscita meglio l’operazione di smontarli e rimontarli e capire perché alcuni non funzionavano e che cosa ad essi mancasse. Questo per un motivo molto banale.

La scuola mi ha fornito se non “la teoria della cultura” almeno qualche cenno sul contesto nel quale si collocano i libri.

Smontare e rimontare ci permette di comprendere meglio ciò che un libro ci vuole trasmettere; è come se oliassimo gli ingranaggi. Questo strategia da sola, però, non ci permette di aggiustare meccanismi inceppati o non funzionanti. Per fare questo dobbiamo fare molto di più. Dobbiamo studiare!

Torniamo ai nostri due libri. Per Silicio era andata così.

Lo avevo comprato a Matera a una presentazione con l’autore.

E proprio per quello che avevo sentito dalla sua voce non potevo che iniziare dalla fi ne. Klara invece avevo deciso di comprarlo mentre ero al Giardino inglese, leggendo sotto uno di quegli alberi giganteschi introdotti a Palermo nel Settecento, quelli che il grande matematico e informatico (laureato in medicina) Marco Schützenberger, la prima volta che è venuto a Palermo, aveva defi nito alberi cibernetici, perché hanno inglobato un meccanismo di retroazione. Quando un ramo si estende troppo, automaticamente la pianta lancia una nuova radice che poi, giunta a terra e radicatasi costituisce un nuovo tronco aggiuntivo a cui appoggiarsi. In realtà il libro lo avevo già comprato, in versione elettronica, mentre sotto l’ombra, appunto, di un Ficus magnolioides, avevo letto un commento appassionato (e appassionante) di Paolo Giordano sulla (versione cartacea della) Lettura (n. 494 del 16 maggio 2021)1. Poi, dal momento che le prime pagine mi avevano preso per incantamento, avevo deciso che non potevo fare a meno anche dell’edizione cartacea e mi sono affrettato ad andare (a piedi) da Feltrinelli prima che chiudesse. In realtà faceva orario continuo e la mia fretta era stata superflua.

Quest’oscillare tra la versione elettronica e quella cartacea dei libri è un difetto da cui non riesco a liberarmi e non c’entra molto, credo almeno, col fatto che di un libro mi piace avere varie edizioni (oltre che, come è naturale, di traduzioni differenti di testi non italiani). No, mi riferisco proprio alla lettura nelle due modalità. Sono diverse, non c’è nulla da dire. Il mezzo attraverso cui avviene non è neutrale e la nostra ricezione del testo ne è fortemente influenzata anche se non ho ancora capito bene da quali elementi specifici questo possa dipendere. Forse dal diverso modo in cui possiamo andare avanti e indietro nel testo, dalla diversità tattile e visiva. La carta, le immagini sono diverse per ogni libro. Nella versione elettronica no, ma variano a seconda dell’aggeggio nel quale leggiamo. Quello delle varie edizioni e traduzioni riguarda un altro aspetto, sia pur legato sempre al fatto che la lettura (e ciò che si riversa nella mente in un momento preciso) dipende molto dalla sorgente a cui ci affidiamo. Il fatto è che il nostro rapporto con i libri è sempre un corpo a corpo con ciascuno di essi preso singolarmente anche quando il testo è lo stesso.

Sicuramente il corpo a corpo non è con le personae dei loro autori che – come dice il termine – sono, appunto, maschere. Poi, ci può essere e – spesso, se non proprio sempre – ci dovrà essere anche un confronto con gli autori, con la loro opera complessiva e col rapporto tra questa e la loro vita, ma questa è un’altra cosa, oltre che un’altra storia.

Torniamo al punto. L’oscillare tra la versione elettronica e quella cartacea di un libro richiama una caratteristica specifica, non banale, dell’informatica nella quale c’è una compresenza di materiale e immateriale tra i quali costituisce, in un certo senso, un ponte. L’informatica potremmo vederla come una sorta di “fi sica dell’immateriale”. Forse c’è anche qualcosa di più. I concetti base dell’informatica, così come quelli della teoria dell’informazione, somigliano molto a quelli della sociologia e di altre scienze “soft”. Invece, poi, non solo la teoria è fortemente matematizzata ma anche nelle sue applicazioni si comporta da scienza “hard”. Un ruolo cruciale in questa sorta di paradosso lo svolge la presenza della teoria della calcolabilità, non posso non menzionare questo aspetto anche se, adesso, non lo posso approfondire. L’informatica – per vari motivi, quello citato prima è solo uno – ha indotto un cambiamento epistemologico nel nostro modo di leggere la realtà per cui l’immateriale non è solo qualcosa di impalpabile ma un oggetto di studio simile a molte delle quantità che si studiano in fi sica.

Che l’oscillare tra la versione elettronica e quella cartacea di un libro sia un epifenomeno di questo cambiamento mi diverte proporlo come ipotesi. Dite che sto divagando e dovrei tornare l tema che ho lasciato in sospeso? In parte avete ragione ma, in fondo, il tema è sempre quello del rapporto che i libri intrattengono con noi anche se ho zigzagato un po’ troppo. Questo zigzagare l’ho sempre considerato uno dei miei modi di perde tempo, una scusa per evitare di concentrarmi sulle cose da fare seriamente. Invece il mio amico matematico, Enric Trillas lo ha riabilitato come un aspetto centrale del pensiero creativo.

Forse, allora, ho zigzagato un po’ troppo, per cercare di essere più creativo. Ma torniamo a noi.

È insolito e interessante che da uno dei padri fondatori dell’informatica “concreta” quella del silicio, appunto, non quella puramente teorica, venga fuori, oggi la visione più radicalmente negazionista di sviluppi ulteriori della nostra disciplina – nella loro impostazione attuale – che possano spiegare il fenomeno della coscienza mentre un grande scrittore che ci aveva incantato con rappresentazioni e analisi sottili della profondità, incertezza, tenerezza dell’animo e della coscienza umani, accetti come possibilità che questo possa avvenire. Mi accorgo adesso che non ho ancora parlato del contenuto dei due libri. Avevo assunto – non so perché – che fossero noti a tutti.

“Klara e il sole” parla di un androide e del suo rapporto con una bambina con cui si intratterrà durante gli anni cruciali della sua crescita. Ma la storia è occasione per Ishiguro di sondare, ancora una volta, l’animo umano, ponendo – con uno stile lievissimo – domande profonde sul nostro rapporto con una tecnologia sempre più incisivamente presente nella nostra vita e sulle nostre paure. “Silicio” è l’autobiografi a di uno dei giganti dell’informatica con una sorpresa finale. La sorpresa finale è l’ultimo capitolo. Mi limito qui a citare un solo brano:

… avevo cominciato a prendere sul serio l’idea che la coscienza potesse essere un aspetto fondamentale della natura, presente in qualche modo già negli atomi e nelle molecole di cui tutto è fatto. Quest’idea affiorò un po’ alla volta, vista l’impossibilità di spiegare l’emergere della coscienza dalla complessità del nostro cervello. … Il concetto di complessità non ha nulla a che fare con le sensazioni e i sentimenti del mondo interiore. Di fatto, i computer d’oggi, con tutta la loro complessità, non hanno neanche una briciola di consapevolezza. Per me non rimaneva alternativa:

il mondo interiore dev’essere fin dall’inizio una proprietà irriducibile di tutto ciò che esiste. (pagina 225) Due visioni molto diverse quelle di Federico Faggin e di Katsuo Ishiguro, direbbe qualcuno, ma è proprio così? Forse meno di quanto sembri. Quella di Faggin è una tipica proposta scientifica (discutibile, discutibilissima, infatti discussa lo è). Per capire alcuni fenomeni “naturali”, quelli legati alla coscienza – lui sostiene – dobbiamo introdurre nuove nozioni. La coscienza non è riducibile agli altri elementi che compongono la base della nostra descrizione della natura. Dobbiamo introdurre qualcos’altro. Una posizione già incontrata nella storia della scienza. Per capire i fenomeni elettromagnetici abbiamo dovuto introdurre la nozione di campo; non ci bastava la meccanica di Newton. Ma la sua proposta pone problemi più sottili perché la maggior parte di noi, se non la quasi totalità, ritiene che tutto sarà, prima o poi, spiegabile senza introdurre nuove entità base oltre a quelle che sono già presenti nel Kit del piccolo scienziato oppure che quello che c’è di specifico nell’essere umano, la coscienza in particolare, non sarà mai spiegabile in termini di metodologie simili a quelle presenti in fi sica e nelle scienze naturali. Un tema che l’umanità ha già affrontato altre volte senza arrivare a un risposta soddisfacente. Dal Rinascimento a fi ne Ottocento e anche dopo. Sono tentato di indicare qualche libro ma non lo faccio perché non saprei regolare la discussione (e gli scontri ideologici) tra loro. Accenno invece a un altro aspetto. Una breve notazione. Una volta, in un incontro a Boulder nel 1981, se non ricordo male, il Dalai Lama rispose alla domanda su cosa potesse offrire il buddismo alla scienza in vista di un possibile dialogo. E lui rispose con modestia: “tantissimi dati sperimentali”. Vari secoli di dati prodotti da tanti meditanti sul funzionamento della mente. La scienza ha solo iniziato a esaminare questa parte dell’esperienza umana. Ricordiamo che Brian Josephson, dopo le ricerche (compiute a 22 anni) che gli meritarono il Nobel per la fisica nel 1973, si è messo a praticare (e a studiare) la meditazione. Qualcosa che ha preannunciato anche Alexander Grothendieck, Medaglia Fields nel 1966, assieme a tanto altro – tra cui un forte impegno per la pace con connesse dimissioni dal prestigioso Institut des Hautes Études Scientifiques perché riceveva finanziamenti dal Ministero della Difesa francese. Tutti elementi di cui tener conto senza assumere atteggiamenti né liquidatori né acriticamente entusiastici. Questo è il contesto nel quale rileggere la questione posta da Federico Faggin. Con lucido spirito critico.

Klara è un controcanto all’ultima parte di Silicio. Controcanto che completa molto bene quanto scritto da Faggin.

Con una chiarezza di linguaggio che ricorda la bella prosa scientifica, lodata da Italo Calvino, Ishiguro ci pone di fronte a quello che potrebbe essere il nostro mondo solo spinto un po’ più in là. Quelle che potrebbero essere le paure o le aspettative degli sviluppi scientifici di oggi le vediamo descritte come un fatto da esaminare e studiare dal momento che sono presentate come qualcosa di già accaduto.

Entrambi, possiamo dire che abbiano usato gli aspetti essenziali del metodo scientifico. Partire dai dati e dall’esperienza e dalla nostra conoscenza attuale del mondo. E partire anche da una conoscenza profonda – e, di necessità, imperfetta

– dell’uomo, dell’animo umano, del suo modo serio di capire il mondo, quello, apparentemente solo esterno, della Natura e quello, apparentemente solo interno, della coscienza. Un esterno e un interno che oggi non si possono più nettamente separare come si poteva fare un secolo fa anche se ancora non sappiamo bene come e cosa fare per studiarli “insieme”, anche se ci accorgiamo che tendono ad avvicinarsi sempre di più. Come ha fatto anche Paolo Giordano presentando, introducendo Ishiguro. Parlando della solitudine irriducibile dell’uomo ma in un senso molto più partecipativo e affettuoso di quanto abbia fatto, a suo tempo, Jacques Monod ne “Il caso e la necessità”.

Il testo completo può essere scaricato da qui

Volando a Stoccolma con gli storni (ma con un occhio ai problemi dell’Italia)

di Settimo Termini

Il disegno di Giorgio Parisi è di Marco Elio Tabacchi

Quando, il 5 ottobre, ho ascoltato la bellissima notizia del Nobel per la fisica a Giorgio Parisi, subito la mia mente si è indirizzata verso una sola cosa. Un rimpianto.   Un regalo che Pietro, Pietro Greco, da poco scomparso, avrebbe potuto e dovuto darci. Parlarci di Giorgio Parisi, di lui come persona, del ricchissimo e complesso percorso in cui i tanti temi presenti si intersecano a un livello altissimo da un punto di vista scientifico. Solo Pietro, pensavo, sarebbe stato in grado di “comunicarci” in modo efficace quello che Parisi ha fatto. Quando la nuvola nera del rimpianto, come sempre accade per tutto, ha cominciato a diradarsi, ho pensato che – poiché se ne doveva parlare – in mancanza di Pietro ne avrei parlato io di questo Premio. Avrei dovuto farlo senza tradire lo spirito di questa rubrica, quindi partendo dai libri. Ma i libri di Parisi che conoscevo mi sembravano troppo difficili per poterlo fare in modo lieve e ho pensato, di nuovo, a Pietro. Lui cosa avrebbe scritto? Come lo avrebbe scritto? Tutto cominciava a diventare terribilmente complicato. Porsi il problema di comunicare la scienza in occasione di un Nobel finalmente assegnato di nuovo alla scienza italiana. Assegnato, apparentemente, per risultati di qualche decennio prima: cosa non insolita ma da capire bene. Lo stesso interessato il giorno della notizia aveva dichiarato che voleva leggere bene la motivazione prima di rispondere a domande specifiche. Cosa che ha fatto, poi, con chiarezza.

Parisi ha continuamente fatto riferimento al “suo maestro Nicola Cabibbo” a cui ha anche dedicato il premio ricevuto. Non ha mai fatto riferimento alle amarezze che qualche anno fa c’erano state, in Italia, quando il Nobel era stato assegnato a fisici che avevano sviluppato idee introdotte per primo da Cabibbo ma non a lui. Ottimo esempio, il suo, non solo di stile ma anche di “comunicazione corretta”. Ma noi possiamo fare un’osservazione. Che non riguarda direttamente l’Accademia di Stoccolma ma il fatto che a un fisico statunitense non sarebbe accaduta una cosa di questo tipo. Giusto per sottolineare che i rapporti tra scienza e società si intersecano, come Pietro – che dirigeva una rivista che si chiamava così – ci ha insegnato. E che mostra la debolezza del nostro Paese.

Poi, a novembre, trovo in libreria “In un volo di storni” e comincio a respirare. Prima di cominciare a scrivere il primo rigo di queste pagine, mi viene in mente il titolo, che è quello che vedete. Un volo virtuale, in realtà, dal momento che – a causa del Covid – le premiazioni da due anni avvengono nella nazione del premiato e non a Stoccolma. In questo caso si è svolta proprio nella sua “Sapienza”. Non so ancora cosa scriverò. Mi attira l’idea di scaricarmi di questo fardello e passargli la palla dicendo al lettore, leggete cosa scrive. Mi resta solo il dubbio se posso presentare il suo libro come esempio di comunicazione efficace, ma basta sfogliarlo per far scomparire i dubbi. Il nostro non è bravissimo solo come scienziato ma anche come comunicatore. Mi colpisce che parli anche di Vannevar Bush, del ruolo che ha svolto. A me Bush l’aveva fatto scoprire Pietro. Da come Parisi ne parla – e da come cita le percentuali del Pil dedicate a ricerca e sviluppo da vari Paesi oltre che da diversi richiami al ruolo svolto in passato dalle Accademie – emerge che ha proprio introiettato bene il rapporto che intercorre tra l’attività del singolo scienziato e il contesto in cui si muove. Una chiarezza estrema emerge anche quando parla di temi strettamente scientifici o commenta il modo di procedere di chi fa ricerca:

“Sfortunatamente […] non rimane spesso traccia dei passaggi intermedi necessari per ottenere un risultato e non siamo più in grado di sapere che cosa abbia ispirato […] una data idea, perché […] le considerazioni extrascientifiche non rimangono nella formulazione scritta degli articoli o dei libri. […] Nella quasi totalità dei testi scritti da scienziati questi temi sono tabù” (pag. 77-78).

Porta esempi semplici per introdurre transizioni di fase e vetri di spin, indica le differenze tra intuizione fisica e intuizione matematica, azzarda paragoni (“assonanze”) tra la teoria dell’evoluzione e la meccanica quantistica proprio prima di parlare dei rischi delle metafore ma chiedendosi se “Niels Bohr, Max Born e gli altri esponenti della scuola di Copenaghen avessero nelle orecchie la teoria darwiniana dell’evoluzione e ne fossero stati influenzati”. Non si limita a questo, si vede da quello che continua a scrivere che si è messo a indagare concludendo che, non essendo uno storico “non può giurare che non ne parlino in qualche scritto poco conosciuto” (pag. 79). Oppure, dice, l’influsso è stato sotterraneo e non se ne sono resi conto. Per questo non hanno scritto niente in proposito. Lo stesso metodo usa per introdurre i suoi risultati. Mi accorgo adesso che mi sono fatto prendere la mano a descrivere queste perle che ho trovato pur leggendo il libro, di corsa, tutto d’un fiato. Non sto usando un tono giusto. Da come ho scritto sembra che stia facendo un panegirico di Parisi. Cosa di cui, ovviamente, non c’è alcun bisogno. Ecco, a differenza sua, ho sbagliato la comunicazione, l’accento non è su Parisi ma su come lui sta comunicando l’argomento. Forse è utile che riporti un saggio dello stile usato quando si accinge a spiegare alcune delle cose da lui fatte. Dopo aver detto che per far funzionare il metodo che ha seguito (metodo delle repliche) aveva dovuto estenderlo, sentite cosa dice al lettore:

“La possibilità di estendere un metodo matematico si basa su un’idea antica: probabilmente il primo a utilizzarla fu Nicola d’Oresme, un vescovo, matematico, fisico ed economista francese, vissuto alla metà del Trecento. Nicola d’Oresme è stato un personaggio incredibile […] Tra le tante cose che danno un’idea delle sue capacità, scrisse un libro (verso il 1360!) sulla distorsione causata dalla rifrazione atmosferica sulla posizione delle stelle. Certo non l’ho letto tutto, è in latino… Comunque, dal punto di vista concettuale, il suo ragionamento era giusto. […] Tornando a noi, Oresme fu il primo ad accorgersi che elevare un numero alla ½ equivaleva a estrarne la radice quadrata. A noi adesso la cosa sembra banale, lo abbiamo studiato fin dal liceo e non ci rendiamo conto del salto logico che Oresme fece nell’estendere le proprietà delle potenze a numeri frazionari, proprietà fino a quel momento riservate esclusivamente ai numeri interi. […] L’idea di Oresme è stata di estendere una proprietà dell’elevamento a potenza: quella in base alla quale si devono moltiplicare gli esponenti qualora si debba elevare a potenza un numero elevato a potenza. Se elevando al quadrato un numero elevato alla ½ otteniamo il numero di partenza (visto che 2 per ½ fa 1), vuol dire che elevare alla ½ equivale a estrarre la radice quadrata: infatti la radice quadrata di un numero elevato al quadrato è il numero stesso. Queste proprietà sono ricavate formalmente, perché prendere mezza volta un numero non ha senso; le proprietà formali, però, garantiscono un risultato coerente. Nicola d’Oresme ha superato il punto di vista originario, di comprensione immediata, ma “salvando le proprietà formali” ha ottenuto un metodo molto semplice per risolvere operazioni anche complesse. Da Oresme in poi, la matematica si è spesso mossa estendendo proprietà in modo formalmente corretto in nuove condizioni e ampliando così i suoi orizzonti.”

E conclude con grande semplicità:  “Per risolvere il mio problema ho usato un metodo simile.”

Collegando Oresme al formalismo della radice quadrata, ottiene due risultati. Suscita interesse per Oresme e per la cultura medievale. Ma anche se quest’interesse dovesse svanire poco dopo, per merito di un’associazione così insolita, rimarrà in mente al lettore il giochino di usare l’astrazione per fare esperimenti impossibili nella realtà ma che ci permettono indirettamente di occuparci della realtà con mezzi sofisticati.

Questo libro, il cui titolo allude a una cosa lieve come il volo degli storni (ma studiato mediante duro lavoro, come descrive nel primo capitolo), non è comunque il suo primo tentativo di comunicare col grande pubblico. A me era sfuggito, ma è di quindici anni fa uno smilzo libriccino, anche questo con un titolo ad effetto. Riprende la nota storiella dell’ubriaco che cerca sotto un lampione le chiavi anche se sa di averle perse dall’altro lato della strada. Le cerca in quel luogo perché è lì che c’è luce. Commenta Parisi: “Questo per dire che gli scienziati fanno le cose che riescono a fare. Quando si accorgono di disporre dei mezzi per studiare qualcosa che fino a quel momento era stata trascurato, allora si impegnano per quella strada” (pag.47).

La differenza con l’ubriaco sta proprio in questo che la scienza indaga quello che ancora non sa e lo cerca dove ha strumenti per farlo. Si dice che chi racconta bene una barzelletta con la battuta finale annulla le aspettative che aveva suscitato nel corso del racconto. Da grande comunicatore Parisi fa proprio questo con il suo titolo. Rivolta il senso della storiella. Ma allora gli scienziati sono come l’ubriaco? Sì, tranne che per un punto. Loro non sanno dove la Natura ha nascosto le chiavi.

Per comunicare bene, mi sono convinto, oltre ad essere chiari bisogna indicare connessioni, anche tra cose molto distanti (scovarne di insolite, meglio se nascoste; ma – attenzione – connessioni realmente esistenti, non inventarsene di finte, altrimenti il gioco non funziona). Questo me lo aveva già insegnato Pietro ora, con grande piacere, ho visto che è una tecnica che Giorgio Parisi usa con molta maestria ed efficacia. Un buon segno per gli altri ruoli che, dopo il Nobel, assumerà e svolgerà, come quello di avvisare dei pericoli che – come Paese – stiamo già correndo da molto tempo. Cosa che ha già cominciato a fare.

Forse vale la pena riportare qui alcuni passaggi significativi del suo ultimo libro, temi presenti anche nella sua recente prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico della Sapienza:

“Non è pensabile lo sviluppo tecnologico senza un parallelo avanzamento della scienza pura. Come era stato ben evidenziato in un libro del 1977, L’ape e l’architetto, la scienza pura non solo fornisce alla scienza applicata le conoscenze necessarie per potersi sviluppare (linguaggi, metafore, quadri concettuali), ma ha anche un ruolo più nascosto e non meno importante. Infatti, le attività scientifiche di base funzionano anche come un gigantesco circuito di collaudo di prodotti tecnologici e di stimolo al consumo di beni ad alta tecnologia avanzata.”   (In un volo di storni, pagina 107)

Con poche parole ha messo a fuoco un problema cruciale. Ma quest’aspetto non è solo un argomento generale, riguarda in modo molto stretto il nostro Paese:

“La deindustrializzazione sistematica dell’Italia è il filo conduttore della nostra storia dalla misteriosa morte di Mattei (1962) in poi assieme al sempre più marcato disinteresse della grande industria per la ricerca dopo la fine di esperienze pilota come quella dell’Olivetti. È ben possibile che i nostri governanti decidano che l’industria e la ricerca italiana debbano avere posto sempre più secondario e che il Paese debba lentamente scivolare verso il terzo mondo.”   (ibidem, pagina 109)

Il testo completo può essere scaricato da qui