di Settimo Termini
Ho comprato l’ultimo libro di Katsuo Ishiguro una domenica mattina di circa un anno fa. Dopo essere tornato a casa ho continuato a sfogliarlo ancora un po’, seduto sul divano.
Poi l’ho poggiato in alto sopra una delle due colonne di libri che torreggiano sul mio comodino contando di continuare a leggerlo la sera. Per evitare che la colonna crollasse, ho tolto alcuni dei libri in alto, che già da tempo avrei dovuto riporre in uno scaffale. Ho sempre in mente di mettere un po’ d’ordine ma lo faccio solo se costretto. “Klara e il sole” (Einaudi 2021), cosi, è andato a finire su “Silicio”, un’autobiografi a molto originale di Federico Faggin (Mondadori, 2019). Non so se i due hanno scambiato fra loro qualche parola. Credo di sì, perché quando li ho ripresi in mano avevo l’impressione che si fossero messi d’accordo per rinviarmi l’uno all’altro. D’altronde se il rosicchiare e mangiare libri può stimolare la passione per il loro contenuto, come è accaduto a “Firmino” (Einaudi, 2019), non mi sembra impossibile che riescano anche a parlare tra loro.
Silicio, invece, lo avevo già letto e non so perché era rimasto in una delle due pile sul comodino. Letto a modo mio, naturalmente, cioè saltando da un capitolo all’altro. Il capitolo preferito da cui cominciare, di solito, è l’ultimo. Anche per i gialli. Vi risparmio gli sguardi di commiserazione, o peggio, che mi vengono indirizzati quando mi capita di comunicarlo.
Questo è il mio modo personale (e discutibile) per capire meglio i libri. Smontandoli. Chissà perché pochi ammettono che i libri sono (anche) degli artefatti, delle costruzioni e, come tutti i marchingegni, per essere capiti bene devono essere smontati e poi rimontati. Poi, quelli importanti, una volta messo a nudo il meccanismo, fanno pensare. Rendersi conto di come sono costruiti facilita la trasmissione completa del loro contenuto profondo. Solo se li smontiamo diventiamo parte di loro.
Devo confessare, però, che non sono molto bravo a smontare e rimontare gli artefatti. Avevo provato a farlo con un orologio quando avevo dodici o tredici anni e non è andata molto bene. Spiego meglio. Dopo averlo smontato sono riuscito a rimontarlo correttamente. Non ho fatto errori o pasticci.
Tutti i pezzi sono tornati correttamente al loro posto, ma non sono riuscito a riparare ciò che non andava. L’orologio non funzionava prima e ha continuato a non funzionare dopo. Smontare e rimontare è stato molto utile per me perché ho capito molto di più del meccanismo ma non tanto da riuscire a riparare il guasto. Per fare ciò avrei dovuto conoscere altre cose riguardo al suo funzionamento. Potrei dire, con un po’ di enfasi, la “teoria” che sta dietro a quella tecnologia. Con i libri, invece, mi è sempre riuscita meglio l’operazione di smontarli e rimontarli e capire perché alcuni non funzionavano e che cosa ad essi mancasse. Questo per un motivo molto banale.
La scuola mi ha fornito se non “la teoria della cultura” almeno qualche cenno sul contesto nel quale si collocano i libri.
Smontare e rimontare ci permette di comprendere meglio ciò che un libro ci vuole trasmettere; è come se oliassimo gli ingranaggi. Questo strategia da sola, però, non ci permette di aggiustare meccanismi inceppati o non funzionanti. Per fare questo dobbiamo fare molto di più. Dobbiamo studiare!
Torniamo ai nostri due libri. Per Silicio era andata così.
Lo avevo comprato a Matera a una presentazione con l’autore.
E proprio per quello che avevo sentito dalla sua voce non potevo che iniziare dalla fi ne. Klara invece avevo deciso di comprarlo mentre ero al Giardino inglese, leggendo sotto uno di quegli alberi giganteschi introdotti a Palermo nel Settecento, quelli che il grande matematico e informatico (laureato in medicina) Marco Schützenberger, la prima volta che è venuto a Palermo, aveva defi nito alberi cibernetici, perché hanno inglobato un meccanismo di retroazione. Quando un ramo si estende troppo, automaticamente la pianta lancia una nuova radice che poi, giunta a terra e radicatasi costituisce un nuovo tronco aggiuntivo a cui appoggiarsi. In realtà il libro lo avevo già comprato, in versione elettronica, mentre sotto l’ombra, appunto, di un Ficus magnolioides, avevo letto un commento appassionato (e appassionante) di Paolo Giordano sulla (versione cartacea della) Lettura (n. 494 del 16 maggio 2021)1. Poi, dal momento che le prime pagine mi avevano preso per incantamento, avevo deciso che non potevo fare a meno anche dell’edizione cartacea e mi sono affrettato ad andare (a piedi) da Feltrinelli prima che chiudesse. In realtà faceva orario continuo e la mia fretta era stata superflua.
Quest’oscillare tra la versione elettronica e quella cartacea dei libri è un difetto da cui non riesco a liberarmi e non c’entra molto, credo almeno, col fatto che di un libro mi piace avere varie edizioni (oltre che, come è naturale, di traduzioni differenti di testi non italiani). No, mi riferisco proprio alla lettura nelle due modalità. Sono diverse, non c’è nulla da dire. Il mezzo attraverso cui avviene non è neutrale e la nostra ricezione del testo ne è fortemente influenzata anche se non ho ancora capito bene da quali elementi specifici questo possa dipendere. Forse dal diverso modo in cui possiamo andare avanti e indietro nel testo, dalla diversità tattile e visiva. La carta, le immagini sono diverse per ogni libro. Nella versione elettronica no, ma variano a seconda dell’aggeggio nel quale leggiamo. Quello delle varie edizioni e traduzioni riguarda un altro aspetto, sia pur legato sempre al fatto che la lettura (e ciò che si riversa nella mente in un momento preciso) dipende molto dalla sorgente a cui ci affidiamo. Il fatto è che il nostro rapporto con i libri è sempre un corpo a corpo con ciascuno di essi preso singolarmente anche quando il testo è lo stesso.
Sicuramente il corpo a corpo non è con le personae dei loro autori che – come dice il termine – sono, appunto, maschere. Poi, ci può essere e – spesso, se non proprio sempre – ci dovrà essere anche un confronto con gli autori, con la loro opera complessiva e col rapporto tra questa e la loro vita, ma questa è un’altra cosa, oltre che un’altra storia.
Torniamo al punto. L’oscillare tra la versione elettronica e quella cartacea di un libro richiama una caratteristica specifica, non banale, dell’informatica nella quale c’è una compresenza di materiale e immateriale tra i quali costituisce, in un certo senso, un ponte. L’informatica potremmo vederla come una sorta di “fi sica dell’immateriale”. Forse c’è anche qualcosa di più. I concetti base dell’informatica, così come quelli della teoria dell’informazione, somigliano molto a quelli della sociologia e di altre scienze “soft”. Invece, poi, non solo la teoria è fortemente matematizzata ma anche nelle sue applicazioni si comporta da scienza “hard”. Un ruolo cruciale in questa sorta di paradosso lo svolge la presenza della teoria della calcolabilità, non posso non menzionare questo aspetto anche se, adesso, non lo posso approfondire. L’informatica – per vari motivi, quello citato prima è solo uno – ha indotto un cambiamento epistemologico nel nostro modo di leggere la realtà per cui l’immateriale non è solo qualcosa di impalpabile ma un oggetto di studio simile a molte delle quantità che si studiano in fi sica.
Che l’oscillare tra la versione elettronica e quella cartacea di un libro sia un epifenomeno di questo cambiamento mi diverte proporlo come ipotesi. Dite che sto divagando e dovrei tornare l tema che ho lasciato in sospeso? In parte avete ragione ma, in fondo, il tema è sempre quello del rapporto che i libri intrattengono con noi anche se ho zigzagato un po’ troppo. Questo zigzagare l’ho sempre considerato uno dei miei modi di perde tempo, una scusa per evitare di concentrarmi sulle cose da fare seriamente. Invece il mio amico matematico, Enric Trillas lo ha riabilitato come un aspetto centrale del pensiero creativo.
Forse, allora, ho zigzagato un po’ troppo, per cercare di essere più creativo. Ma torniamo a noi.
È insolito e interessante che da uno dei padri fondatori dell’informatica “concreta” quella del silicio, appunto, non quella puramente teorica, venga fuori, oggi la visione più radicalmente negazionista di sviluppi ulteriori della nostra disciplina – nella loro impostazione attuale – che possano spiegare il fenomeno della coscienza mentre un grande scrittore che ci aveva incantato con rappresentazioni e analisi sottili della profondità, incertezza, tenerezza dell’animo e della coscienza umani, accetti come possibilità che questo possa avvenire. Mi accorgo adesso che non ho ancora parlato del contenuto dei due libri. Avevo assunto – non so perché – che fossero noti a tutti.
“Klara e il sole” parla di un androide e del suo rapporto con una bambina con cui si intratterrà durante gli anni cruciali della sua crescita. Ma la storia è occasione per Ishiguro di sondare, ancora una volta, l’animo umano, ponendo – con uno stile lievissimo – domande profonde sul nostro rapporto con una tecnologia sempre più incisivamente presente nella nostra vita e sulle nostre paure. “Silicio” è l’autobiografi a di uno dei giganti dell’informatica con una sorpresa finale. La sorpresa finale è l’ultimo capitolo. Mi limito qui a citare un solo brano:
… avevo cominciato a prendere sul serio l’idea che la coscienza potesse essere un aspetto fondamentale della natura, presente in qualche modo già negli atomi e nelle molecole di cui tutto è fatto. Quest’idea affiorò un po’ alla volta, vista l’impossibilità di spiegare l’emergere della coscienza dalla complessità del nostro cervello. … Il concetto di complessità non ha nulla a che fare con le sensazioni e i sentimenti del mondo interiore. Di fatto, i computer d’oggi, con tutta la loro complessità, non hanno neanche una briciola di consapevolezza. Per me non rimaneva alternativa:
il mondo interiore dev’essere fin dall’inizio una proprietà irriducibile di tutto ciò che esiste. (pagina 225) Due visioni molto diverse quelle di Federico Faggin e di Katsuo Ishiguro, direbbe qualcuno, ma è proprio così? Forse meno di quanto sembri. Quella di Faggin è una tipica proposta scientifica (discutibile, discutibilissima, infatti discussa lo è). Per capire alcuni fenomeni “naturali”, quelli legati alla coscienza – lui sostiene – dobbiamo introdurre nuove nozioni. La coscienza non è riducibile agli altri elementi che compongono la base della nostra descrizione della natura. Dobbiamo introdurre qualcos’altro. Una posizione già incontrata nella storia della scienza. Per capire i fenomeni elettromagnetici abbiamo dovuto introdurre la nozione di campo; non ci bastava la meccanica di Newton. Ma la sua proposta pone problemi più sottili perché la maggior parte di noi, se non la quasi totalità, ritiene che tutto sarà, prima o poi, spiegabile senza introdurre nuove entità base oltre a quelle che sono già presenti nel Kit del piccolo scienziato oppure che quello che c’è di specifico nell’essere umano, la coscienza in particolare, non sarà mai spiegabile in termini di metodologie simili a quelle presenti in fi sica e nelle scienze naturali. Un tema che l’umanità ha già affrontato altre volte senza arrivare a un risposta soddisfacente. Dal Rinascimento a fi ne Ottocento e anche dopo. Sono tentato di indicare qualche libro ma non lo faccio perché non saprei regolare la discussione (e gli scontri ideologici) tra loro. Accenno invece a un altro aspetto. Una breve notazione. Una volta, in un incontro a Boulder nel 1981, se non ricordo male, il Dalai Lama rispose alla domanda su cosa potesse offrire il buddismo alla scienza in vista di un possibile dialogo. E lui rispose con modestia: “tantissimi dati sperimentali”. Vari secoli di dati prodotti da tanti meditanti sul funzionamento della mente. La scienza ha solo iniziato a esaminare questa parte dell’esperienza umana. Ricordiamo che Brian Josephson, dopo le ricerche (compiute a 22 anni) che gli meritarono il Nobel per la fisica nel 1973, si è messo a praticare (e a studiare) la meditazione. Qualcosa che ha preannunciato anche Alexander Grothendieck, Medaglia Fields nel 1966, assieme a tanto altro – tra cui un forte impegno per la pace con connesse dimissioni dal prestigioso Institut des Hautes Études Scientifiques perché riceveva finanziamenti dal Ministero della Difesa francese. Tutti elementi di cui tener conto senza assumere atteggiamenti né liquidatori né acriticamente entusiastici. Questo è il contesto nel quale rileggere la questione posta da Federico Faggin. Con lucido spirito critico.
Klara è un controcanto all’ultima parte di Silicio. Controcanto che completa molto bene quanto scritto da Faggin.
Con una chiarezza di linguaggio che ricorda la bella prosa scientifica, lodata da Italo Calvino, Ishiguro ci pone di fronte a quello che potrebbe essere il nostro mondo solo spinto un po’ più in là. Quelle che potrebbero essere le paure o le aspettative degli sviluppi scientifici di oggi le vediamo descritte come un fatto da esaminare e studiare dal momento che sono presentate come qualcosa di già accaduto.
Entrambi, possiamo dire che abbiano usato gli aspetti essenziali del metodo scientifico. Partire dai dati e dall’esperienza e dalla nostra conoscenza attuale del mondo. E partire anche da una conoscenza profonda – e, di necessità, imperfetta
– dell’uomo, dell’animo umano, del suo modo serio di capire il mondo, quello, apparentemente solo esterno, della Natura e quello, apparentemente solo interno, della coscienza. Un esterno e un interno che oggi non si possono più nettamente separare come si poteva fare un secolo fa anche se ancora non sappiamo bene come e cosa fare per studiarli “insieme”, anche se ci accorgiamo che tendono ad avvicinarsi sempre di più. Come ha fatto anche Paolo Giordano presentando, introducendo Ishiguro. Parlando della solitudine irriducibile dell’uomo ma in un senso molto più partecipativo e affettuoso di quanto abbia fatto, a suo tempo, Jacques Monod ne “Il caso e la necessità”.
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