di Settimo Termini
Il disegno di Giorgio Parisi è di Marco Elio Tabacchi
Quando, il 5 ottobre, ho ascoltato la bellissima notizia del Nobel per la fisica a Giorgio Parisi, subito la mia mente si è indirizzata verso una sola cosa. Un rimpianto. Un regalo che Pietro, Pietro Greco, da poco scomparso, avrebbe potuto e dovuto darci. Parlarci di Giorgio Parisi, di lui come persona, del ricchissimo e complesso percorso in cui i tanti temi presenti si intersecano a un livello altissimo da un punto di vista scientifico. Solo Pietro, pensavo, sarebbe stato in grado di “comunicarci” in modo efficace quello che Parisi ha fatto. Quando la nuvola nera del rimpianto, come sempre accade per tutto, ha cominciato a diradarsi, ho pensato che – poiché se ne doveva parlare – in mancanza di Pietro ne avrei parlato io di questo Premio. Avrei dovuto farlo senza tradire lo spirito di questa rubrica, quindi partendo dai libri. Ma i libri di Parisi che conoscevo mi sembravano troppo difficili per poterlo fare in modo lieve e ho pensato, di nuovo, a Pietro. Lui cosa avrebbe scritto? Come lo avrebbe scritto? Tutto cominciava a diventare terribilmente complicato. Porsi il problema di comunicare la scienza in occasione di un Nobel finalmente assegnato di nuovo alla scienza italiana. Assegnato, apparentemente, per risultati di qualche decennio prima: cosa non insolita ma da capire bene. Lo stesso interessato il giorno della notizia aveva dichiarato che voleva leggere bene la motivazione prima di rispondere a domande specifiche. Cosa che ha fatto, poi, con chiarezza.
Parisi ha continuamente fatto riferimento al “suo maestro Nicola Cabibbo” a cui ha anche dedicato il premio ricevuto. Non ha mai fatto riferimento alle amarezze che qualche anno fa c’erano state, in Italia, quando il Nobel era stato assegnato a fisici che avevano sviluppato idee introdotte per primo da Cabibbo ma non a lui. Ottimo esempio, il suo, non solo di stile ma anche di “comunicazione corretta”. Ma noi possiamo fare un’osservazione. Che non riguarda direttamente l’Accademia di Stoccolma ma il fatto che a un fisico statunitense non sarebbe accaduta una cosa di questo tipo. Giusto per sottolineare che i rapporti tra scienza e società si intersecano, come Pietro – che dirigeva una rivista che si chiamava così – ci ha insegnato. E che mostra la debolezza del nostro Paese.
Poi, a novembre, trovo in libreria “In un volo di storni” e comincio a respirare. Prima di cominciare a scrivere il primo rigo di queste pagine, mi viene in mente il titolo, che è quello che vedete. Un volo virtuale, in realtà, dal momento che – a causa del Covid – le premiazioni da due anni avvengono nella nazione del premiato e non a Stoccolma. In questo caso si è svolta proprio nella sua “Sapienza”. Non so ancora cosa scriverò. Mi attira l’idea di scaricarmi di questo fardello e passargli la palla dicendo al lettore, leggete cosa scrive. Mi resta solo il dubbio se posso presentare il suo libro come esempio di comunicazione efficace, ma basta sfogliarlo per far scomparire i dubbi. Il nostro non è bravissimo solo come scienziato ma anche come comunicatore. Mi colpisce che parli anche di Vannevar Bush, del ruolo che ha svolto. A me Bush l’aveva fatto scoprire Pietro. Da come Parisi ne parla – e da come cita le percentuali del Pil dedicate a ricerca e sviluppo da vari Paesi oltre che da diversi richiami al ruolo svolto in passato dalle Accademie – emerge che ha proprio introiettato bene il rapporto che intercorre tra l’attività del singolo scienziato e il contesto in cui si muove. Una chiarezza estrema emerge anche quando parla di temi strettamente scientifici o commenta il modo di procedere di chi fa ricerca:
“Sfortunatamente […] non rimane spesso traccia dei passaggi intermedi necessari per ottenere un risultato e non siamo più in grado di sapere che cosa abbia ispirato […] una data idea, perché […] le considerazioni extrascientifiche non rimangono nella formulazione scritta degli articoli o dei libri. […] Nella quasi totalità dei testi scritti da scienziati questi temi sono tabù” (pag. 77-78).
Porta esempi semplici per introdurre transizioni di fase e vetri di spin, indica le differenze tra intuizione fisica e intuizione matematica, azzarda paragoni (“assonanze”) tra la teoria dell’evoluzione e la meccanica quantistica proprio prima di parlare dei rischi delle metafore ma chiedendosi se “Niels Bohr, Max Born e gli altri esponenti della scuola di Copenaghen avessero nelle orecchie la teoria darwiniana dell’evoluzione e ne fossero stati influenzati”. Non si limita a questo, si vede da quello che continua a scrivere che si è messo a indagare concludendo che, non essendo uno storico “non può giurare che non ne parlino in qualche scritto poco conosciuto” (pag. 79). Oppure, dice, l’influsso è stato sotterraneo e non se ne sono resi conto. Per questo non hanno scritto niente in proposito. Lo stesso metodo usa per introdurre i suoi risultati. Mi accorgo adesso che mi sono fatto prendere la mano a descrivere queste perle che ho trovato pur leggendo il libro, di corsa, tutto d’un fiato. Non sto usando un tono giusto. Da come ho scritto sembra che stia facendo un panegirico di Parisi. Cosa di cui, ovviamente, non c’è alcun bisogno. Ecco, a differenza sua, ho sbagliato la comunicazione, l’accento non è su Parisi ma su come lui sta comunicando l’argomento. Forse è utile che riporti un saggio dello stile usato quando si accinge a spiegare alcune delle cose da lui fatte. Dopo aver detto che per far funzionare il metodo che ha seguito (metodo delle repliche) aveva dovuto estenderlo, sentite cosa dice al lettore:
“La possibilità di estendere un metodo matematico si basa su un’idea antica: probabilmente il primo a utilizzarla fu Nicola d’Oresme, un vescovo, matematico, fisico ed economista francese, vissuto alla metà del Trecento. Nicola d’Oresme è stato un personaggio incredibile […] Tra le tante cose che danno un’idea delle sue capacità, scrisse un libro (verso il 1360!) sulla distorsione causata dalla rifrazione atmosferica sulla posizione delle stelle. Certo non l’ho letto tutto, è in latino… Comunque, dal punto di vista concettuale, il suo ragionamento era giusto. […] Tornando a noi, Oresme fu il primo ad accorgersi che elevare un numero alla ½ equivaleva a estrarne la radice quadrata. A noi adesso la cosa sembra banale, lo abbiamo studiato fin dal liceo e non ci rendiamo conto del salto logico che Oresme fece nell’estendere le proprietà delle potenze a numeri frazionari, proprietà fino a quel momento riservate esclusivamente ai numeri interi. […] L’idea di Oresme è stata di estendere una proprietà dell’elevamento a potenza: quella in base alla quale si devono moltiplicare gli esponenti qualora si debba elevare a potenza un numero elevato a potenza. Se elevando al quadrato un numero elevato alla ½ otteniamo il numero di partenza (visto che 2 per ½ fa 1), vuol dire che elevare alla ½ equivale a estrarre la radice quadrata: infatti la radice quadrata di un numero elevato al quadrato è il numero stesso. Queste proprietà sono ricavate formalmente, perché prendere mezza volta un numero non ha senso; le proprietà formali, però, garantiscono un risultato coerente. Nicola d’Oresme ha superato il punto di vista originario, di comprensione immediata, ma “salvando le proprietà formali” ha ottenuto un metodo molto semplice per risolvere operazioni anche complesse. Da Oresme in poi, la matematica si è spesso mossa estendendo proprietà in modo formalmente corretto in nuove condizioni e ampliando così i suoi orizzonti.”
E conclude con grande semplicità: “Per risolvere il mio problema ho usato un metodo simile.”
Collegando Oresme al formalismo della radice quadrata, ottiene due risultati. Suscita interesse per Oresme e per la cultura medievale. Ma anche se quest’interesse dovesse svanire poco dopo, per merito di un’associazione così insolita, rimarrà in mente al lettore il giochino di usare l’astrazione per fare esperimenti impossibili nella realtà ma che ci permettono indirettamente di occuparci della realtà con mezzi sofisticati.
Questo libro, il cui titolo allude a una cosa lieve come il volo degli storni (ma studiato mediante duro lavoro, come descrive nel primo capitolo), non è comunque il suo primo tentativo di comunicare col grande pubblico. A me era sfuggito, ma è di quindici anni fa uno smilzo libriccino, anche questo con un titolo ad effetto. Riprende la nota storiella dell’ubriaco che cerca sotto un lampione le chiavi anche se sa di averle perse dall’altro lato della strada. Le cerca in quel luogo perché è lì che c’è luce. Commenta Parisi: “Questo per dire che gli scienziati fanno le cose che riescono a fare. Quando si accorgono di disporre dei mezzi per studiare qualcosa che fino a quel momento era stata trascurato, allora si impegnano per quella strada” (pag.47).
La differenza con l’ubriaco sta proprio in questo che la scienza indaga quello che ancora non sa e lo cerca dove ha strumenti per farlo. Si dice che chi racconta bene una barzelletta con la battuta finale annulla le aspettative che aveva suscitato nel corso del racconto. Da grande comunicatore Parisi fa proprio questo con il suo titolo. Rivolta il senso della storiella. Ma allora gli scienziati sono come l’ubriaco? Sì, tranne che per un punto. Loro non sanno dove la Natura ha nascosto le chiavi.
Per comunicare bene, mi sono convinto, oltre ad essere chiari bisogna indicare connessioni, anche tra cose molto distanti (scovarne di insolite, meglio se nascoste; ma – attenzione – connessioni realmente esistenti, non inventarsene di finte, altrimenti il gioco non funziona). Questo me lo aveva già insegnato Pietro ora, con grande piacere, ho visto che è una tecnica che Giorgio Parisi usa con molta maestria ed efficacia. Un buon segno per gli altri ruoli che, dopo il Nobel, assumerà e svolgerà, come quello di avvisare dei pericoli che – come Paese – stiamo già correndo da molto tempo. Cosa che ha già cominciato a fare.
Forse vale la pena riportare qui alcuni passaggi significativi del suo ultimo libro, temi presenti anche nella sua recente prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico della Sapienza:
“Non è pensabile lo sviluppo tecnologico senza un parallelo avanzamento della scienza pura. Come era stato ben evidenziato in un libro del 1977, L’ape e l’architetto, la scienza pura non solo fornisce alla scienza applicata le conoscenze necessarie per potersi sviluppare (linguaggi, metafore, quadri concettuali), ma ha anche un ruolo più nascosto e non meno importante. Infatti, le attività scientifiche di base funzionano anche come un gigantesco circuito di collaudo di prodotti tecnologici e di stimolo al consumo di beni ad alta tecnologia avanzata.” (In un volo di storni, pagina 107)
Con poche parole ha messo a fuoco un problema cruciale. Ma quest’aspetto non è solo un argomento generale, riguarda in modo molto stretto il nostro Paese:
“La deindustrializzazione sistematica dell’Italia è il filo conduttore della nostra storia dalla misteriosa morte di Mattei (1962) in poi assieme al sempre più marcato disinteresse della grande industria per la ricerca dopo la fine di esperienze pilota come quella dell’Olivetti. È ben possibile che i nostri governanti decidano che l’industria e la ricerca italiana debbano avere posto sempre più secondario e che il Paese debba lentamente scivolare verso il terzo mondo.” (ibidem, pagina 109)
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