di Settimo Termini
Il titolo può sembrare incomprensibile a molti. Spero che le considerazioni finali lo rendano chiaro
Ascoltando e seguendo la cronaca di questa guerra in Europa – la prima trent’anni dopo i disastri e le atrocità nei Balcani (che, purtroppo, non abbiamo vissuto allora come qualcosa che ci riguardasse da vicino, come invece avremmo dovuto fare) – mi sono ritrovato a osservare la mia mente dall’esterno che come sempre fa – salta da una visione a all’altra, da un’immagine interna a noi che improvvisamente affiora a un’immagine che forse induciamo noi stessi ad emergere. come fa sempre la nostra mente e tanto più se non cerchiamo di forzarla, se non indugiamo troppo su di essa.
Tra le cose viste, come tanti altri italiani, mi ha molto colpito un servizio di quella bravissima giornalista (me questa definizione è limitativa) che è Francesca Mannocchi. Già in passato ero stato molto colpito dal suo modo estremamente efficace di presentare ciò di cui parlava, così come ero stato molto toccato nel profondo dalle lettura di due suoi libri e, anche in questo caso, sia per il contenuto sia per il modo in cui questo era narrato. Una perfetta coincidenza tra forma e contenuto. Ma questo servizio, vedendolo, ha causato qualcosa in più. Come al solito, l’efficacia della comunicazione in questo suo servizio era affidata alla capacità narrativa che associava e alternava, attraverso un montaggio particolarmente efficace, primi piani, sobri commenti, risposte degli intervistati.
A domande pregnanti si alternavano a lenti passaggi silenziosi sugli effetti della guerra. Le potremmo definire “pure immagini”. Secondo la scuola Kagyupa del buddismo tibetano (quella di Milarepa), queste, le immagini allo stato puro, dovrebbero accelerare la presa di coscienza di cosa sia e come funzioni la realtà in modo più rapido e immediato di quanto riusciremmo a fare mediante più elaborati procedimenti di tipo logico concettuale. (non solo uso una terminologia occidentale ma, per limiti personali, la banalizzo tanto da sfiorare la sciatteria).
Ma questo lo sappiamo senza troppi giri e giochi di parole. Quando abbiamo visto l’immagine di un bambino su una spiaggia in Turchia, tutti (tutto il mondo potremmo dire) ha avuto una reazione sincera e immediata, vera e profonda.
Queste , proprio queste hanno fatto scattare un’associazione immediata, anzi direi, una sorta di cortocircuito fulmineo con immagini remore sedimentate, da qualche decennio nella memoria. Quelle di Koyaanisqatsi, lo strano e affascinante film di Godfrey Reggio. Ciò che vedevo – accaduto oggi – era una conferma della “vita squilibrata” (questa è una della possibili traduzioni del termine hopi del nome del film) documentata a suo tempo da Reggio.
Sono immagini di guerra, si potrebbe dire, squilibrate come tutte le immagini di guerra che raccontano e testimoniano la vita profondamente sconvolta e ferita dalla guerra ma non è proprio coì se ricordiamo che Koyaanisqatsi ,tra l’altro, documenta gli effetti del nostro uso sconsiderato della tecnologia in tempo di pace. Non ricordo (non lo rivedo da molti anni) se vi sono anche immagini di guerra ma, siano presenti o meno queste ultime, il suo scopo non era rivolto principalmente alla guerra.
Koyaanisqatsi documenta un eccesso, un eccesso che non è dovuto al desiderio di colmare le mancanze – anch’esse in eccesso – di oggetti, cose e bisogni di tanta parte dell’umanità. Sono eccessi inutili che procurano solo danni. Danni ambientali, come minimo ma che, a catena, possono condurre ad altre conseguenze, procurando altri danni. Che c’entra questo con immagini di guerra, con la distruzione da essa generata? Obiezione giusta. Mi fermo a riflettere: La mia mente, nel suo girovagare, ha fatto un’associazione indebita questa volta? O no? Le associazione mentali non sono mai sbagliate. Siamo noi che possiamo interpretarle in modo non corretto, spiegare il legame evidenziato informalmente forzandolo in modo indebito a livelli più generali e non dove si trova realmente (l’astrazione sbagliata di cui parlava Simone Weil).
Il legame è dato dalla necessità di esaminare e prendere molto sul serio le cause strutturali profonde, diverse e nella loro connessione. Quelle che stanno alla base di tutti gli squilibri. Fenomeni così complessi e devastanti non sono attribuibili ad un’unica causa.
“I like Ike” era lo slogan elettorale di Eisenhover che dopo aver vinto la Seconda guerra mondiale divenne Presidente degli Stati Uniti. E nel suo ultimo discorso alla Nazione, prima di lasciare la carica, ammonì tutti, lui ex militare, del pericolo del “Complesso militare industriale”. Con lungimiranza aveva visto un possibile pericolo.
In questa situazione così complessa, il titolo vuole da un lato rendergli omaggio e dall’altro invitare tutti a riflettere su quello che i suoi ammonimenti significano anche oggi.
P. S. Avevo scritto queste poche righe solo per me, in una sorta di diario privato, all’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Le considerazioni, purtroppo, continuano ad essere attuali. Di nuovo c’è che, nel frattempo, si è aggiunta un’altra guerra. Avremmo veramente bisogno della saggezza di Eisenhower.